Lorenzo, che amava
la musica e la filosofia.
Lorenzo amava la musica. E la filosofia. Amava la birra. E gli piaceva giocare a calcio. Amava noi, la sua famiglia, ce lo ha dimostrato moltissime volte. E noi amavamo lui. Era impossibile non amarlo. Maturo, anche troppo per i suoi 17 anni. Equilibrato. Saggio. Aveva sempre una risposta per tutto.
Lorenzo non amava la confusione. Non amava le discoteche. La sua serata ideale era quella passata in birreria a sorseggiare una Guinness con quattro amici quattro. Di quelli veri. Non amava le “pizzate”, dove «se vuoi scambiare due parole con quello che sta all’altro capo del tavolo non ci riesci». E non amava «quelli che cadono sempre in piedi». Aveva un senso del dovere fortissimo, quasi ossessivo. E una volontà di ferro. Era convinto di non essere fortunato. Pensava che lui, nella vita, per ottenere qualcosa, avrebbe dovuto lottare. E aveva cominciato a lottare presto. All’inizio aveva fatto fatica, al liceo classico, la scuola che aveva voluto scegliere con forza e determinazione. Passava ore e ore sui libri. Il suo impegno però era stato premiato. I voti erano lì, e parlavano chiaro: il latino, il greco, la filosofia erano la sua strada, la sua vita. La matematica no. Può amare la matematica uno che a 17 anni guarda il computer con distacco, quasi con diffidenza? E ama scrivere a mano. Che riempie pagine e pagine con quella calligrafia minuta e un po’ inclinata. D’altronde, diceva, «per scrivere la Magna Carta non hanno mica usato word!».
Non è possibile parlare di Lorenzo senza parlare del suo pianoforte e della sua chitarra, la Fender Stratocaster azzurra che aveva comprato con i suoi risparmi. «La mia bambina», la chiamava. E la sua bambina lo seguiva, docile, quando pizzicava le corde con leggerezza o quando “ci dava dentro”. E il piano? Le mani volavano sulla tastiera. Ma non voleva sentirsi dire che era bravo. Perché c’era un sacco di gente più brava di lui, diceva. E sicuramente era vero. Però era bravo. Ma lui era così, non c’erano quelli “bravini”, o “abbastanza bravi”. O uno era bravissimo, o niente.
La malattia lo ha colto di sorpresa, quando guardava al futuro con grandi progetti. Voleva andare a studiare in Germania, la patria della filosofia. Desiderava viaggiare. Il linfoma lo ha fermato. Gli ultimi giorni faceva fatica a camminare avanti e indietro nel corridoio del Talamona, cinquanta metri scarsi. Doveva essere in Irlanda, il giorno in cui se n’è andato via per sempre.
Lorenzo non c’è più. E ci manca, ci manca da morire. Manca a me, manca a sua madre, quella mamma che cercava di mettere al riparo dal suo dolore per non farla soffrire. E manca a sua sorella. La sorella che negli ultimi giorni trascorsi a casa accarezzava con tenerezza: «Stai tranquilla, vedrai che guarisco».
Io non so se Lorenzo è da qualche parte, in una dimensione che noi non riusciamo neppure a immaginare. Però per me Lorenzo è ancora qui. Vive in tutto quello che ci ha dato, in quello che ci ha regalato in questi splendidi, meravigliosi 17 anni. Negli ultimi giorni gli avevo parlato del progetto di creare un’associazione per dare un senso a tutto quello che gli stava succedendo. Per evitare che altri ragazzi potessero soffrire come lui. «Mi sembra un progetto molto nobile», aveva detto. Avremmo dovuto realizzarlo insieme. E in effetti lo stiamo realizzando insieme, perché è proprio lui, con il suo esempio, con il suo coraggio, a darmi la forza di portare avanti tutto questo. E lo stiamo realizzando insieme perché Lorenzo sarà sempre mio figlio, e io sarò sempre il suo orgogliosissimo papà. E se Lorenzo è da qualche parte, e mi sta osservando, spero solo che mi abbia perdonato due cose: di avere parlato di lui, lui che era sempre così schivo e detestava mettersi in mostra, e di avere scritto questo ricordo con l’odiatissimo word.